Negli appunti viene affrontato il tema della dimensione narrativa del testo filmico, e attraverso uno sguardo alle varie semiologie applicabili al cinema (in particolare le teorie di Barthes, Metz, …), si cercano di capire alcuni dei problemi inerenti ad una semiotica del cinema. Prendendo in esame Delluc ed Epstein si indagano i problemi della fotogenia, e le teorie relative allo spettatore. Infine, vengono analizzati due film ("Un mercoledì da leoni" e "Arrivée d'un train"), in cui viene considerato il linguaggio filmico e il ruolo dell'enunciatore.
Semiotica dei media
di Nicola Giuseppe Scelsi
Negli appunti viene affrontato il tema della dimensione narrativa del testo
filmico, e attraverso uno sguardo alle varie semiologie applicabili al cinema (in
particolare le teorie di Barthes, Metz, …), si cercano di capire alcuni dei
problemi inerenti ad una semiotica del cinema. Prendendo in esame Delluc ed
Epstein si indagano i problemi della fotogenia, e le teorie relative allo
spettatore. Infine, vengono analizzati due film ("Un mercoledì da leoni" e
"Arrivée d'un train"), in cui viene considerato il linguaggio filmico e il ruolo
dell'enunciatore.
Università: Università degli Studi di Bologna
Facoltà: Lettere e Filosofia
Corso: Discipline dell’Arte, della Musica e dello
Spettacolo
Esame: Semiotica dei media
Docente: Guglielmo Pescatore
Titolo del libro: Il narrativo e il sensibile. Semiotica e teoria del
cinema
Autore del libro: G. Pescatore
Editore: Hybris - Bologna
Anno pubblicazione: 20011. Il cinema come narrazione per immagini
Scopo di questo capitolo è mostrare come il privilegio che la semiotica del cinema ha accordato alla
dimensione narrativa del testo filmico e, di contro, la difficoltà che ha incontrato nel definire e nel trattare
operativamente gli aspetti propriamente visivi del film, non sono dovuti allo sviluppo particolare e/o
accidentale di tale disciplina, che la ha portata a privilegiare la dimensione narrativa, essendo piuttosto la
conseguenza diretta e logica dei suoi stessi fondamenti.
Il cinema nella sua forma generale è una narrazione per immagini. Questa affermazione comporta in realtà
due enunciati:
1) al cinema delle immagini si danno a vedere;
2) esse raccontano una storia.
L’enunciato 2) presuppone naturalmente l’enunciato 1): senza immagini che si danno a vedere, nessuna
storia. Ma non è altrettanto automatica l’accettazione di un rapporto di implicazione dei due enunciati, cioè:
se delle immagini si danno a vedere, ciò comporta necessariamente una narrazione. Mentre la semiotica
gremaisiana1 – per la quale ogni forma testuale possiede necessariamente una dimensione narrativa – da una
posizione forte ed esplicita a questo problema, più sfumata e più pragmatica appare la posizione assunta
implicitamente dagli studi narratologici applicati al cinema, che può essere esplicitata così: per i testi di cui
si dà analisi narratologica vale il rapporto di implicazione tra l’enunciato 1) e l’enunciato 2); in questo caso
dunque ad un asserzione di carattere generale e teorico, viene sostituita un’asserzione di carattere
principalmente operativo.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 2. La narratività dell'immagine cinematografica
Queste due posizioni sono al centro di due paradigmi influenti della ricerca teorica sul cinema, se si pensa al
risalto che ha avuto la narratologia negli studi degli ultimi quindici anni e al fatto che il modello greimasiano
fa spesso riferimento al dibattito sull’enunciazione cinematografica; contro di esse si è sviluppata negli
ultimi anni una sorta di reazione che tende a metterne in evidenza i limiti, sottoponendo a revisione l’idea
stessa di narrazione cinematografica.
Si può dire che in quest’ambito viene attribuito all’immagine cinematografica, almeno rispetto a quel caso
particolare che è il cinema delle origini, uno statuto presentazionale piuttosto che narrativo; ciò significa che
il ruolo dell’immagine cinematografica è quello di apparire, di darsi a vedere, e la sua funzione specifica
risiede nel creare una sorta di spettacolo della visione essenzialmente prenarrativo o antinarrativo: in questo
caso viene negato il rapporto di implicazione tra l’enunciato 1) e 2), e l’effetto specifico e implicato del darsi
a vedere delle immagini consiste nella particolare forma di visione spettacolare che il cinema crea, piuttosto
che nelle sue valenze narrative.
Questa posizione va però valutata anche nel suo valore euristico e praticamente operativo; sembrano allora
porsi due possibilità, non necessariamente alternative:
a) ci si attesta sulla constatazione fenomenologica dell’effetto di fascinazione prodotto dalle immagini
cinematografiche e/o si pensa ad una sorta di narratologia alternativa che assume tale effetto come valore
posto in gioco dal testo. In ogni caso questo momento doppiamente aurorale – della storia del cinema e della
percezione – di fascinazione delle immagini nel loro statuto presentazionale rimane nella sostanza un
postulato, un dato primo dell’esperienza cinematografica, non sottoposto ad analisi ulteriore.
b) si collocano l’analisi e la spiegazione dello statuto spettacolare dell’immagine cinematografica fuori dal
testo: una semiotica interpretativa farà dunque ricorso alla nozione di codici culturali e di enciclopedia,
mentre quegli studiosi, soprattutto anglosassoni, che si muovono tra analisi del testo e storia sociale e che
fanno riferimento più o meno esplicito ai cultural studies e alla reception theory, cercheranno di ricostruire
uno spettatore storicamente situato e socialmente determinato che renda conto degli effetti prodotti dallo
spettacolo cinematografico. In ogni caso, la narrazione, cancellata dal testo, riappare fuori di esso, nei dati
contestuali, nelle determinazioni sociali, culturali, ideologiche, sessuali, alla fine della Storia.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 3. La semiologia come scienza generale - Saussure -
Per Saussure la semiologia era da intendersi come scienza generale dei segni o dei sistemi dei segni; certo,
una tale definizione verrebbe oggi esplicitamente criticata da chi fonda la propria teoria sulla base delle
tipologie semiotiche espresse da Hjelmslev1, tuttavia negli anni ’60 tale definizione costituiva un punto
certo di riferimento, tanto che con essa si apre l’influente Elementi di semiologia di Barthes, per il quale
l’affermazione di Saussure, secondo cui la lingua non è altro che una parte della scienza generale dei segni,
andava rovesciata.
( Per Hjelmslev il livello del segno non è pertinente per l’analisi, che deve invece svolgersi separatamente
sul piano del contenuto e dell’espressione. Ciò in quanto “le lingue non si possono descrivere come puri
sistemi di segni; in base al fine che loro generalmente si attribuisce, esse sono in primo luogo e soprattutto
sistemi di segni; ma in base alla loro struttura interna esse sono in primo luogo e soprattutto qualcosa di
diverso, cioè sistemi di figure che si possono usare per costruire segni”)
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 4. La semiologia come parte della linguistica - Barthes -
Finora la semiologia si è occupata solo di codici di interesse assai ristretto, come il codice stradale; non
appena si passa a sistemi di un’autentica profondità sociologica, si incontra di nuovo il linguaggio. Oggetti,
immagini, comportamenti possono significare, e significano ampiamente, ma mai in modo autonomo: ogni
sistema semiologico ha a che fare con il linguaggio. Quindi, si deve ammettere la possibilità un giorno di
rovesciare l’affermazione saussuriana: la linguistica non è una parte, sia pure privilegiata, della scienza
generale dei segni, ma viceversa la semiologia è una parte della linguistica, e precisamente quella parte che
ha per oggetto le grandi unità significanti del discorso.
Ciò che Barthes intuiva già in questo testo è l’estrema difficoltà di applicare fuori dalla lingua naturale i
modelli della linguistica intesa in senso ristretto: è difficile esportare fuori dalla lingua il criterio della
doppia articolazione (monemi e fonemi) e dunque la semiologia deve avere come oggetto lo studio delle
grandi unità significanti. Sono esse ad essere comuni ai più diversi sistemi di segni, sono dunque esse a cui
dovrà interessarsi anche il semiologo del cinema, tenendo presente che saranno comunque commesse al
proprio significato secondo i modi della lingua. Una delle differenze tra il significato linguistico e quello
semiologico risiederebbe allora proprio nel fatto che quest’ultimo può essere commesso ai segni della
lingua, presentandosi dunque come non isologico.
Più oltre Barthes specifica ulteriormente la questione introducendo una distinzione tra significati isologici –
dove si avranno sistemi semiologici (come la lingua) in cui il significato corrisponde esattamente ed
indissolubilmente al proprio significante – e non isologici – dove al significante viene attribuito un
significato attraverso la mediazione della lingua.
Questa distinzione è in realtà assai poco difendibile; in particolare la proprietà che Barthes definisce come
isologia sembra a tutta prima vicina alla nozione hjelmsleviana di conformità: al di là della definizione
rigorosa, si ha conformità tra due piani di linguaggio quando esiste una corrispondenza termine a termine tra
i singoli elementi dei due piani; si avranno in questo caso delle semiotiche interpretabili, ma il cui contenuto
non è ulteriormente analizzabile in figure (è il caso dei simboli in senso stretto: la bilancia, in una cultura
determinata è simbolo della giustizia – e dunque interpretabile –, ma il suo contenuto proprio aderisce
esattamente alla sua espressione e dunque non è ulteriormente analizzabile).
Semiotiche di tal genere si definiscono monoplanari (Hjelmslev contempla qui alcuni giochi, come gli
scacchi, i linguaggi simbolici, come quello algebrico, e, in forma dubitativa, la musica), in opposizione alle
semiotiche propriamente dette (biplanari), di cui si dà analisi linguistica.
Allora la conclusione che si deve trarre dal testo di Barthes è quantomeno paradossale: la lingua naturale, al
pari del linguaggio musicale, appartiene alle semiotiche monoplanari e dunque andrebbe annoverata tra
quelle che Hjelmslev considera non-lingue.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 5. I sistemi semiotici al cinema
Ciò ci obbliga, nel caso in cui volessimo usare operativamente la nozione di isologia, a rivederne, se non il
senso, quantomeno il modo in cui si applica alla lingua e ai sistemi semiotici, sottoponendo le affermazioni
di Barthes a un rovesciamento simile a quello da lui invocato per Saussure: considerando la lingua come un
sistema non isologico e interrogarci sull’isologia di sistemi semiotici come il cinema. Un’operazione di tal
genere comporterebbe essenzialmente due risultati:
1) considerare l’immagine cinematografica come un oggetto bifronte, dotato di due diversi regimi semiotici.
- Da un lato un regime non isologico che si struttura secondo modalità omologhe a quelle della lingua e che
dunque significa “sotto il linguaggio”, e il senso si costituisce allora in grandi unità significanti, secondo i
modi della lingua, e dunque si dà come senso narrativo.
- Dall’altro lato un regime isologico il cui senso si pone nell’immagine e fuori dalla lingua, come
significazione immediata, e che si da come senso visivo e percettivo, organizzandosi, piuttosto che in grandi
unità narrative, secondo una sintassi essenzialmente prenarrativa;
2) porre esplicitamente il problema del metalinguaggio: i sistemi non isologici autorizzano naturalmente, di
per sé, il ricorso alla lingua come metalinguaggio, mentre sono i sistemi isologici a necessitare la
costituzione di un metalinguaggio arbitrario. Il rovesciamento dell’assunto barthesiano, ponendo un aspetto
isologico all’immagine cinematografica, rende necessario pensare ad un metalinguaggio a vocazione
scientifica o, quantomeno, a un linguaggio di descrizione che non sia mimetico rispetto alla lingua, che non
significhi sotto il linguaggio, ma invece strutturi un certo numero di assunti teorici relativi al carattere visivo
del fatto cinematografico.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 6. La questione dell'isologia - Metz -
La questione dell’isologia è centrale per comprendere i motivi del rapporto che si instaura tra lingua e
immagine anche negli sviluppi successivi alla semiologia del cinema, a cominciare da quell’atto fondativo
della pertinenza disciplinare rappresentato dai lavori di Metz.
Per quanto concerne la prima tappa del percorso metziano, quello di Semiologia del cinema, è opportuno
sottolineare che:
1- la scelta di Metz è decisamente nella direzione delle grandi unità significanti, in conformità con quanto
già indicato da Barthes. Gli elementi del linguaggio cinematografico rimangono comunque più grandi
rispetto alle piccole unità del linguaggio verbale. Su questa idea di macroelementi cinematografici si fonda
la grande sintagmatica, che è il punto d’arrivo del testo di Metz, mentre i piccoli elementi rappresentano il
limite della semiologia cinematografica che vede svanire la propria competenza: che lo si sia voluto o meno,
ci si trova esposti ai mille venti della cultura, ai confusi mormorii di mille altre parole. La strada delle grandi
unità offre a Metz la possibilità di liberarsi dalle pastoie della discussione sull’analogia e sulle unità minime
del linguaggio cinematografico
2- ciò comporta però che la questione del senso risulti essenzialmente come rapporto tra un numero di
morfologie – relativamente stabili – individuate sul piano del significante, e la loro possibile parafrasi
linguistica all’interno della diegesi del film. L’approccio di Metz è dunque eminentemente e
necessariamente narrativo
3- una volta che sia posta la questione del senso nei termini di significato linguistico non isologico restano
due strade possibili: o si sceglie la connotazione (Barthes), e allora il senso è in funzione delle qualità di
scrittura e di acutezza dell’analista, oppure si rimane tenacemente agganciati alla denotazione (Metz), nel
qual caso il senso non può che darsi come enunciato narrativo.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 7. La narratività del cinema - Metz -
Il passo successivo compiuto da Metz con Linguaggio e cinema è ancora più radicale: la narratività, in
quanto organizzata secondo codici non specifici, viene posta fuori dal cinematografico in quanto fatto
specifico; la definizione dei modi e dei limiti di specificità del cinematografico si fonda ora sulla nozione di
codici, la cui specificità interessa essenzialmente il piano dell’espressione, anche quando ad esso si associ un
significato denotato, come nel caso di alcune figure del montaggio.
Il montaggio alternato, ad esempio, isolatamente si presenta come unità di significazione, se s’intende con
questo che comporta
- una faccia significante(la disposizione alternata delle immagini)
e
- una faccia significata(l’indicazione che le azioni corrispondenti sono simultanee);
ma in rapporto al film considerato nel suo insieme, il montaggio alternato è interamente dal lato
dell’espressione.
Dunque la specificità del cinema riguarda innanzitutto forma e materia dell’espressione: partendo dal
presupposto che esiste un’unica materia del contenuto, il senso, manifestabile in linguaggi diversi, Metz
arriva alla conclusione che il discrimine tra linguaggi diversi vada individuato sul piano dell’espressione e
che ad esso per primo debba prestare attenzione la semiotica del cinema. l’argomentazione di Metz
comunque sottovaluta il fatto che nel processo di significazione esiste un momento primo di apprensione del
senso: senza un riferimento ad esso l’analisi del significante rischia di ridursi ad una pura morfologia, tesa in
sostanza all’individuazione di procedimenti e figure, esattamente ciò che nel testo filmico – e nel cinema – è
già dato, è consueto, è codificato appunto.
Il libro di Metz segna il passaggio da una visione grammaticale ad una visione testuale, in cui si pone certo
al questione del senso, ma la si dissolve nella variabilità aspecifica, sociale e culturale, dei codici. Il film
significa, ma lo fa fuori dal cinema; l’unico significato possibile nel film è quello che gli si può attribuire
attraverso i discorsi sul film, socialmente e culturalmente attestate.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 8. La svolta nel campo della semiotica del cinema - anni '70 -
Per certi versi si può vedere la svolta operata nel campo della semiotica del cinema a partire dalla seconda
metà degli anni ’70 come un tentativo di reintrodurre il senso, già situato fuori da campo cinematografico,
attribuendolo al un soggetto in varia misura e modo presupposto dal testo filmico. in tal modo si cercava di
ristabilire un legame intrinseco tra l’oggetto della significazione – il testo – e il suo significato, attraverso un
soggetto presupposto – spettatore, narratore o enunciatore, a seconda degli ambiti teorici in cui ci si
muoveva, dalla narratologia alla teoria dell’enunciazione, passando per la psicoanalisi – che fosse garante di
un tale legame; anche in questo caso, però, si è fatto riferimento ad un modello narrativo e/o linguistico.
In ambito narratologico o di teoria dell’enunciazione si opera una traduzione di un enunciabile – l’immagine
cinematografica – in un insieme di enunciati; queste metodologie sono intrinsecamente orientate alla
manipolazione di enunciati: esse necessitano della trasformazione di una relazione percettiva – visione – in
una relazione narrativa di cui si possa dare una sintassi secondo procedimenti semiotici consolidati.
Un aspetto differente della questione, concerne l’utilizzo della categoria di “persona”, che fa esplicito
riferimento al modello linguistico. Si è cercato più volte di proporre un’omologia tra la relazione complessa
guardante/guardato e la relazione che il sistema dei pronomi intrattiene nella lingua con l’istanza
dell’enunciazione, costituendo delle configurazioni enunciazionali che trovano riscontro in alcune figure
cinematografiche(oggettiva, soggettiva, interpellazione, ecc.).
Tuttavia già Aumont ha distinto il punto di vista ottico – costitutivo di ciò che viene visto, ma che non
implica direttamente alcuna soggettività – dal punto di vista predicativo – che implica gerarchicamente il
punto di vista ottico ma non è in nessuna maniera omologabile con quest’ultimo, e sembra correlarsi
direttamente alla soggettività dell’enunciante; un’inquadratura è quindi correlabile con una posizione della
m.d.p. ma non con una soggettività, la quale viene tuttavia presupposta ad un livello gerarchicamente
superiore.
Nella lingua le procedure di attorializzazione si attuano a partire dall’opposizione fondamentale persona/non
persona. La relazione io/tu(persona) viene istallata attraverso un debrayage enunciazionale, mentre la terza
persona(non persona) viene istallata attraverso un debrayage enunciativo; si vede bene come tali debrayage
sono di natura categoriale – relazione o/o –, ma tale categorialità è direttamente dipendente dalla natura
categorica delle relazioni pronominali(lingua come sistema). Nel cinema appare evidente l’impossibilità di
reperire una struttura attoriale categorica preesistente all’atto di enunciazione e d’altra parte i soggetti
delegati dal soggetto dell’enunciazione vengono istallati attraverso debrayage graduali.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media 9. L'immagine semi soggettiva - Mitry -
È più corretto, piuttosto che attribuire valore prenominale ad alcune figure, riconoscere nel cinema
l’esistenza di un continuum bipolare tra persona e non persona , enunciazione enunciata ed enunciato
enunciato, all’interno del quale gli attori si situano attraverso scarti relativi più che assoluti, mantenendo la
possibilità di fluttuare da un polo all’altro. È preferibile riferire tale bipolarismo all’opposizione
oggettivo/soggettivo, coerentemente con tutta una tradizione di studi di teoria del cinema; così l’immagine
cinematografica si costituirà come punto mobile tra due valori estremi: esiste una deissi spaziale, temporale
e attoriale in rapporto di presupposizione con l’immagine, ma tale deissi rimanda solo in maniera indiretta e
mediata dall’immagine ad una soggettiva. In rapporto a tale discorso si vede bene il valore euristico di
alcuni concetti sviluppati in ambito di teoria del cinema:
Mitry notava l’importanza di una delle funzioni della complementarità campo/controcampo, qualora
coincida con l’altra complementarità guardante/guardato. Ma non si può nemmeno dire che la prima
immagine sia oggettiva e la seconda soggettiva; poiché quanto è visto nella prima immagine, è gia qualcosa
di soggettivo che viene dal guardante, e nella seconda immagine il guardato può essere presentato per sé
quanto per il personaggio. Può prodursi una contrazione estrema del campo/controcampo, come in Eldorado
di L’Herbier, in cui la donna distratta che vede sfocata è vista essa stessa sfocata; di conseguenza, se
l’immagine percezione cinematografica non cessa di passare dal soggettivo all’oggettivo e inversamente,
non bisognerebbe piuttosto cercarle uno statuto specifico diffuso, flessibile, che possa restare impercettibile,
ma che si riveli talvolta in casi stupefacenti? Mitry proponeva la nozione di immagine semi soggettiva
generalizzata per designare questo essere insieme della m.d.p.: non si confonde con il personaggio, non è
nemmeno più al di fuori, è con lui.
Pasolini nella sua tesi importantissima afferma che l’immagine percezione troverebbe uno statuto particolare
nella soggettiva libera indiretta che sarebbe come una riflessione dell’immagine in una coscienza di sé
cinepresa. Non ha alcuna importanza allora sapere se l’immagine è soggettiva o oggettiva: essa è
semisoggettiva.
Nicola Giuseppe Scelsi Sezione Appunti
Semiotica dei media